Archivi del mese: marzo 2009

La spensierata combriccola di Facebook

Forse sbaglio…ma questa è l’impressione.

PS: non ce l’ho con Facebook, si capisce.

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Perché Freud e la Chiesa sono finiti dalla stessa parte

Quando ero uno scolaro, il professore di religione ci parlò dei tre maestri del sospetto: Marx, Nietzche e Freud, arcinemici della Fede. Tra i tutti, il  meno antipatico mi sembrava Freud, ma che il professore giudicava altrettanto insidioso.

Con stupore mi accorgo invece ultimamente che c’è più distanza tra quanto sostengono alcuni movimenti culturali, e psicologi loro vicini, e Freud, almeno su alcuni punti, di quanto ve ne sia oggi tra Freud, psicanalisi e Chiesa Cattolica. Ovviamente, questa è una mia impressione, che lego per esempio alle recenti polemiche sulla canzone di Povia, ma anche a tanti altre considerazioni lette di recente.

Di questa vicinanza, io vedo due i motivi.

Il primo è il riconoscimento comune del mistero. Come ricorda Giuliana Bertelloni, secondo la psicanalisi, l”‘io non è padrone in casa propria”, per cui noi siamo mistero proprio per noi stessi. Il Mistero dell’uomo, e soprattutto di Dio, proposto dalla Chiesa, è evidentemente ancora più profondo. Entrambe, su scale diverse, dunque, pongono l’uomo di fronte all’ignoto, lo riducono ad umile ascolto dell’universo.

La cultura contemporanea – la chiamerò così – rifiuta generalmente il mistero, in quanto limite. Lo rifiuta nel mistero della fine della vita, come in quello della nascita, ritenendo la scienza capace di capire e penetrare ogni mistero che ci circonda. Non solo. Grazie ad uno scambio di battute con un certo Luca su questo blog e più recentemente con altri, ho potuto apprezzare che c’è un’altra attitudine che non nega il mistero, ma che lo giudica insondabile e quindi privo di interesse.

Psicanalisi (uso questo termine in senso volutamente ampio) e fede religiosa hanno in comune, credo, oltre al riconoscimento del mistero, anche la fede nella sua parziale sondabilità. La ricerca interiore di tipo psicanalitico, credo, non si esaurisca mai, ma è possibile e piena di interesse e, suppongo, se questo è il piano, di risultati pratici. La ricerca di Dio, lungo le Scritture e la sapienza della Chiesa, è inesauribile, ma è anche forse il compito più importante che ha l’uomo.

Di conseguenza, psicanalisi e Chiesa Cattolica riconoscono il Mistero (o mistero), ma sono profondamente interessate a sondarlo. Al contrario, mi sembra, la cultura contemporanea, compresa una parte della psicologia, lo rifiuta perché non esiste o perché è insondabile, e comunque privo di interesse.

Il secondo punto di contatto è la responsabilità. Come dice bene Fioridiarancio, che uno lo concepisca come colpa e peccato, o solo come causa o vicenda da interpretare, la storia personale familiare è carica di significati e di scelte importanti. Sono responsabilità dei genitori, ma proprie anche davanti alla vita. Nel tracciare questo filo di causalità, di responsabilità, la psicanalisi e la Chiesa Cattolica non lasciano tranquillo l’uomo, lo disturbano.

Secondo la cultura contemporanea, lo colpevolizzano. E colpevolizzare è comunque senza senso.

Oggi non dobbiamo mai essere responsabili, né attribuire la responsabilità all’altro. Solo qualcosa di indistinto, come un’azienda o un’organizzazione o chi capita nella gogna mediatica, può essere colpevole.

Poco importa se il prezzo di questa deresponsabilizzazione è, cito di nuovo Fioridiarancio, la perdita di capacità di incidere sul reale o, aggiungo io, la perdita della possibilità di spiegare ciò che accade. Se quello che mi accade, e che faccio, è un caso, su cui non ho controllo (ovviamente controllo parziale perché, ed è il rischio di tanti percorsi introspettivi, altrimenti diventa delirio di onnipotenza) né responsabilità, non resta altro che l’emozione del momento, che arriva e va, e la ricerca del piacere contrapposta alla fuga dal dolore. Irrilevanti davanti al nostro destino di figli e alla storia dei nostri figli, impossibilitati a riconoscere i nostri sentimenti per non urtare quelli altrui, siamo almeno liberati dalla fatica della ricerca interiore (quella discesa agli inferi di cui parla di nuovo la Bertelloni) o del senso del peccato.

E, in una deformata mitologia, diventa frutto del lavaggio del cervello il sentire la propria responsabilità di padri e di madri, come il riconoscere la propria storia di figli.

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AIDS e preservativi: parliamo dell’Africa, o di noi?

E ‘evidente che abbiamo bisogno di fare dei veri progressi contro gli elementi trainanti di questa epidemia [Ndr, quella dell’AIDS], in particolare la disuguaglianza dei generi, la stigmatizzazione e la discriminazione [Ndr, di sieropositivi e ammalati], la povertà, e l’incapacità di attuare e proteggere i diritti umani. Questa è forse la sfida più grande per rispondere all’AIDS. Non ci può essere una soluzione tecnologica per le questioni sociali. Abbiamo bisogno di un cambiamento sociale – e tutti noi che lottiamo contro l’AIDS dobbiamo essere disposti a sostenere questo cambiamento. Sono sempre più convinto che da sola, l’espansione dei programmi, o fare di più, anche molto di più, non fermerà l’epidemia

Forse dall’assenza della parola preservativo, avrete capito che chi parla non è il Papa, ma il Direttore del Joint United Nations Programme on HIV/AIDS (UNAIDS), il programma delle Nazioni Unite contro l’AIDS, Peter Piot, nel 2006.

Mi sembra di non azzardarmi troppo nel dire che, come il Papa, anche Piot pensa che non basta aumentare i programmi (i soldi comunque non sufficienti di cui ha parlato il Papa), ma che bisogna lavorare sugli elementi trainanti (il Papa ha parlato, in maniera più pregnante, di anima). Per programmi credo che si intenda anche la distribuzione di preservativi.

Lo stigma e la discriminazione di sieropositivi ed ammalati di Piot mi sembrano gli aspetti cui il Papa vorrebbe oppporre una “vera amicizia anche e soprattutto per le persone sofferenti. Dietro la diseguaglianza dei generi, come soluzione, vedo chiaramente le parole del Papa “umanizzazione della sessualità, cioè un rinnovo spirituale e umano che porti con sé un nuovo modo di comportarsi l’uno con l’altro“, con la differenza che il discorso del Papa è più profondo. Mi sembra, fra l’altro, questo tema dell’umanizzazione della sessualità, del “dare forza spirituale e umana per un comportamento giusto nei confronti del proprio corpo e di quello dell’altro” sia di grande attualità anche da noi.

A parte l’importanza del ruolo della Chiesa cattolica, tra i due, resta una frase problematica pronunciata dal Papa “se gli africani non aiutano (impegnando la responsabilità personale), non si può superarlo con la distribuzione di preservativi: al contrario, aumentano il problema”. Qui c’è un evidente contrasto con quanto afferma la citata UNAIDS, perché quest’ultima dice chiaramente che i preservativi funzionano anche se altrettanto chiaramente dice che devono essere incorporati in una strategia complessiva, e che altri elementi hanno un ruolo.

Sempre UNAIDS, infatti, parla dell’ABC (Astinenza, cioè evitare i più giovani ad avere rapporti sessuali solo quando sono emotivamente pronti ad affrontarli; Being faithful, cioè essere fedeli; Condom preservativi), cosa che – salvo i condom – di nuovo ci porta vicino a quanto dice il Papa.

Mi sembra quindi che ci sia un certo consenso che distribuire i preservativi da solo non funziona, anche perché essi prevengono l’AIDS solo se usati costantemente.

Non ho trovato che i preservativi aumentano il problema, questo no (anche se ho cercato poco) e continuo a pensare che, anche se risolvessero solo parte del problema, varrebbe comunque la pena promuoverne l’uso. Ma non riesco a non essere d’accordo con il Papa, come del resto con le fonti che ho visto, che il problema è, anche solo dal punto di vista pratico, più profondo. Anche con i preservativi, il vero lavoro è dare alle persone la forza psichica di usarli.

Dalla polemica di questi giorni, mi viene però il dubbio che si stia parlando (anche) d’altro.

Ho letto che sarebbero i giornalisti anglosassoni per alcune questioni legate all’Africa ad avercela con il Papa. Può darsi, la stampa inglese ed americana, in buona parte, è contro i papisti e il cattolicesimo quasi da sempre, in un modo a volte irritante.

Però sospetto che la vera discussione sia sull’approccio al sesso nella nostra società, non in quella africana. Sospetto che il timore sia parlare di astinenza (che poi vuol dire avere i primi rapporti sessuali più tardi) e fedeltà, o meglio di avere un diverso rapporto con il sesso, non agli africani, ma qui da noi – in Italia ed Europa. Anche in Italia si propongono programmi ABC, ma continua a sembrarmi un discorso controcorrente.

E con questo -a quello che so oggi – sono per il preservativo, quando serve, e per le campagne che lo propongono se è utile. Servisse a salvare anche una sola persona.

Ecco comunque sotto il testo dello scandalo. Sotto la parte clou.

“DomandaSantità, tra i molti mali che travagliano l’Africa, vi è anche e in particolare quello della diffusione dell’Aids. La posizione della Chiesa cattolica sul modo di lottare contro di esso viene spesso considerata non realistica e non efficace. Lei affronterà questo tema, durante il viaggio?

Papa – Io direi il contrario: penso che la realtà più efficiente, più presente sul fronte della lotta contro l’Aids sia proprio la Chiesa cattolica, con i suoi movimenti, con le sue diverse realtà. Penso alla Comunità di Sant’Egidio che fa tanto, visibilmente e anche invisibilmente, per la lotta contro l’Aids, ai Camilliani, a tante altre cose, a tutte le Suore che sono a disposizione dei malati … Direi che non si può superare questo problema dell’Aids solo con soldi, pur necessari, ma se non c’è l’anima, se gli africani non aiutano (impegnando la responsabilità personale), non si può superarlo con la distribuzione di preservativi: al contrario, aumentano il problema. La soluzione può essere solo duplice: la prima, una umanizzazione della sessualità, cioè un rinnovo spirituale e umano che porti con sé un nuovo modo di comportarsi l’uno con l’altro; la seconda, una vera amicizia anche e soprattutto per le persone sofferenti, la disponibilità, anche con sacrifici, con rinunce personali, ad essere con i sofferenti. E questi sono i fattori che aiutano e che portano visibili progressi. Perciò, direi questa nostra duplice forza di rinnovare l’uomo interiormente, di dare forza spirituale e umana per un comportamento giusto nei confronti del proprio corpo e di quello dell’altro, e questa capacità di soffrire con i sofferenti, di rimanere presente nelle situazioni di prova. Mi sembra che questa sia la giusta risposta, e la Chiesa fa questo e così offre un contributo grandissimo ed importante. Ringraziamo tutti coloro che lo fanno.”

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Infestante e da non divulgare quello che non è politically correct

Ho seguito con un certo interesse le ultime battute della discussione sul blog di Claudio Risè a proposito della canzone “Luca era gay”. Sarei intervenuto, dopo gli interventi di Luigi D’Elia (coautore di un articolo con Piera Serra e Lorita Tinelli sulla canzone, che ho già avuto modo di criticare), ma Pietro Bono e Armando hanno messo bene in luce i limiti del suo intervento, anche se ovviamente molto altro vi sarebbe da dire.

Alcune parole però del commento di D’Elia mi hanno fatto rizzare i capelli: “smarcamento da precedenti e vetuste visioni colpevolistiche, deterministiche, medicalistiche, moralistiche, nell’orientamento sessuale “. Nell’articolo originale, la frase era più complessa “le teorie sulla psicopatogenesi familiare dell’omosessualità che alcune scuole di psicologia hanno in passato coniato e che, come comunità scientifica, abbiamo consentito per alcuni decenni venissero divulgate infestando la cultura, contribuendo al pregiudizio negativo nei confronti di gay e lesbiche, screditando le loro madri e i loro padri”.

C’è un primo livello di lettura. Questo livello di lettura fa riflettere perché dopo la canzone di Povia mi sono fatto un giretto e ho trovato, per esempio, che l’Associazione dei Medici Cattolici americani ha proprio la posizione che avrebbe” infestato” la cultura. Non mi sembra da questa e altre letture che la teoria della genesi familiare dell’omosessualità sia poi così screditata ed abbandonata, visto che affonda le sue radici nella psicanalisi (ma avevo già capito che questi psicologi con la psicanalisi, con l’inconscio, con Freud e Jung non vanno per niente d’accordo). Dunque, mi colpisce che si fa passare, anche questa volta, per “pensiero unico” qualcosa che pensiero unico non è per niente (sempre a danno di posizione cattoliche, s’intende).

Ma quello che mi fa rizzare veramente i capelli è questo: “abbiamo consentito…che venissero divulgate“. Cioè queste teorie non dovevano e non devono neanche essere divulgate (bruciando i testi esistenti, immagino), in quanto vetuste ora e, se non dovevano essere neppure divulgate, evidentemente sbagliate fin dall’inizio (perché non è dato capire).

Perché ho questa preoccupazione? Perché Lorita Tinelli ha già chiarito che lo psicologo che propone terapie con “riferimenti teorici inesistenti o poco plausibili rispetto a teorie psicologiche, assente o insufficiente documentazione della loro utilità ed efficacia” (tralasciando ovviamente che la documentazione di tanti approcci che vanno per la maggiore, a quanto leggo, non ci sono) è un ciarlatano iscritto all’ordine e fa psicoterapia folle. I luoghi dove si fa psicoterapia folle sono psicosette. Il rogo mediatico e il tribunale sembrano già pronti.

Prenderei queste cose alla leggera, se non avessi vissuto la storia di Arkeon,. Per questo, non prendo il bollare certe teorie dell’omosessualità come “vetuste”, “infestanti” e “non divulgabili” come fare opinione alla moda. Mi suonano come accertamenti di pensiero eretico, che è il primo passo verso l’iter che noi di Arkeon abbiamo conosciuto così bene. Fa bene Armando a parlare di anticamera di totalitarismo, perché il prossimo passo è la censura a Povia (poco male, se vogliamo) e l’intervento contro chi pretende di avere, a ragione o torto, una visione diversa dell’omosessualità e della sua genesi.

Ma, ed è quello che mi preoccupa di più, sembra esserci un attacco frontale alla ricerca psicologica, o interiore, che cerca le radici del presente nel passato, nella famiglia, solo perché – pare – questo può portare alla colpevolizzazione dei genitori. E questa sembra una grossa limitazione.

Che diventa ancora più inquietante quando si mette in discussione persino la divulgazione delle teorie che non paiono politically correct.

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Vuoi fare il giornalista? Vola via…

E’da un po’che rifletto sul giornalismo, e da questa riflessione è venuto fuori l’ultimo post. Pensavo che, se i figli mi manifestassero l’intenzione di fare quel mestiere, gli direi come minimo di dare per scontato di andare a lavorare all’estero (sperando in bene).

Grazie al blog di Alessandro, a questo proposito, ho scoperto poco fa un’intervista a Giampaolo Pansa su sussidiario.net, che parla (bene) del giornalismo nostrano, rispetto al Papa, ma non solo. Ne segnalo però qui tre stralci interessanti ( i grassetti sono miei):

Intervistatore: Pansa, c’è dunque secondo lei il rischio di un generale diffondersi di un “pensiero unico”, soprattutto nei giornali, corredato da un catalogo precostituito di simpatici e antipatici (tra cui questo Papa)?

Pansa: Questo rischio c’è sempre, non solo nei confronti del Papa. Se poi parliamo in particolare dei giornali italiani è una cosa che avviene normalmente, perché i nostri quotidiani sono animati da una faziosità che è sempre più stupefacente. E non sto parlando dei giornali di partito, bensì dei giornali che dovrebbero essere di informazione, i quali invece prima del dovere di informare sentono un altro dovere, sbagliato e intossicato, che è quello di esprimere sempre opinioni, dicendo chi è buono e chi è cattivo, chi è bello e chi è brutto.

poi:

“Interivstatore: Torniamo ai giornali: perché è così difficile parlare di quello che accade, e si punta tutto su opinioni e interpretazioni?

Pansa: Io penso che i giornalisti dovrebbero innanzitutto raccontare ai loro lettori quello che succede. E poi, se i lettori lo desiderano, fornire un commento. Invece in tante testate italiane si è capovolto questo principio: prima si commenta, e poi, se resta spazio, si dice quello che è successo. È una malattia terribile, anche se una malattia vecchia.”

e ancora più sotto:

“Intervistatore: Alzano [i giornali]  il tono della polemica faziosa per avere più lettori, e invece li perdono?

Pansa: C’è una cosa anche peggiore di questa, che si vede ancora nelle critiche fatte a Benedetto XVI sulla questione dell’Aids, e cioè che c’è una sorta di concetto superbo del proprio mestiere. Non è solo la ricerca del clamore per attrarre lettori – che poi, appunto, non serve – ma è un’idea sbagliata del proprio mestiere per cui ci si concepisce come i “superman” dell’opinione pubblica italiana. Non per nulla, ora che in particolare l’opinione pubblica di sinistra è molto acciaccata e non sa più come riprendersi, si rifugiano allora nel dire che non esiste più un’opinione pubblica in Italia. Invece non è assolutamente così: una delle cose positive di questo Paese, nonostante tutto, è che ci sono molte opinioni pubbliche. Quindi, in conclusione, io sono per un giornalismo diverso: energico, coraggioso, ma che sappia distinguere le proprie opinioni da quello che accade nella realtà.”

L’intervista completa vale la pena di leggerla, ma trovo molti interessanti gli spunti, e triste la conclusione. Soprattutto se il Superman giornalistico dell’opinione pubblica è il Gabibbo di Striscia la Notizia.

Forse l’estero è meglio.

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Ma come si fa il giornalista?

Un giornalista serio per Arkeon?

Non ho mai fatto il giornalista per cui quello che so di quel mestiere l’ho più che altro letto sui libri o visto nei film.

Immagino che ci sia uno spunto, magari autonomo, magari un’indicazione del caporedattore, magari un lancio di agenzia, una fonte od un comunicato da approfondire. Il giornalista inizia poi ad approfondire (nel tempo che ha), a verificare la veridicità, a controllare i fatti, a vedere quali sono le interpretazioni magari discordanti, o cosa ne pensa l’altra parte (c’è un’altra parte in quasi tutte le cose), e, poi, si domanda come rendere interessante il pezzo, magari tenendo conto della linea editoriale del giornale.

Vent’anni fa, la verifica dei fatti doveva essere difficoltosa, come probabilmente lo è oggi quando vieni a sapere qualcosa confusamente in un ospedale ed è difficile controllare i dettagli anagrafici. Però, quando si può spendere un’oretta al proprio computer, Google ed Internet credo che siano una rivoluzione, oltre immagino ai database riservati. Poi, certo, per essere più di un blogger, credo che il giornalista alzerebbe anche il telefono, oltre all’e-mail per verificare, sapere, sondare.

Sulla base di tutto quello che ha saputo, costruisce l’articolo, magari anche con una tesi forte, ma con un uso attento del condizionale rispetto all’indicativo, di avverbi, per qualificare bene ipotesi da fatti, virgolettato da riferito, ogni cosa attribuibile ad una fonte, i dubbi più ovvi discussi.

Con desolazione ho scoperto negli ultimi anni che questo, dove ho potuto verificare personalmente i fatti, non accade. Non so perché, ma è evidente che non viene neanche mosso il ditino sulla tastiera e, se viene mosso, comunque non è importante rispetto alla fonte primaria, che non ha alcun bisogno di verifiche.

La desolazione è grande, e non riguarda solo l’Italia. Diventa sempre più difficile proprio capire cosa è successo, qual’è il fatto; il giornalismo critico ed attento, che non usa il pretesto della carta stampata solo per portare avanti una tesi, non lo vedo.

Ho iniziato a leggere con interesse i quotidiani online, alcuni blog, e ogni tanto direttamente i lanci di agenzia. Mi sembra che i giornalisti non diano più alcun valore aggiunto al lancio d’agenzia (che, è vero, può essere esso stesso manipolatore e di bassa lega) perché non mi aspetto che ci sia nessun approfondimento, nessun controllo, ma solo una manipolazione ad hoc. Allora preferisco leggere persone intelligenti o giornali online con poche risorse, perché dei fatti ne sapranno quanto me, ma almeno hanno più acume del mio.

Perché è accaduto questo (ammesso che non sia sempre stato così) non lo so. Deve essere anche perché il giornalista che scrive una stronzata non è deriso dai colleghi. Oppure ripreso dal caporedattore o licenziato dall’editore.

E’un trend come tanti, se non che, senza una stampa seria, la libertà di tutti soffre.

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Arkeon e media: altra spazzatura in arrivo

Apprendo che l’udienza preliminare sul caso Arkeon si terrà il 19 maggio.

Sarà probabilmente una nuova orgia mediatica – di ampiezza da definire – in cui verranno ribadite le solite cose, senza neanche un minimo di ricerca giornalistica o di contraddittorio.

Non si parlerà sicuramente dell’incredibile vicenda di Raffaella di Marzio, delle affermazioni di Padre Cantalamessa (se non per gettare ulteriore fango) o di Claudio Risé, non si parlerà delle conseguenze di questa campagna di stampa (vedi qui) né si consulterà la discutibile e censurata voce di Wikipedia, non si parlerà degli stupefacenti comportamenti professionali di Lorita Tinelli o delle tante sciocchezze del famoso Tiresia, non si parlerà dell’assurdo caso di Martini o di Fabia o delle testimonianze positive di Arkeon, non si parlerà dell’assenza di un qualsiasi studio serio su Arkeon, non si parlerà del Cesap che dopo dieci anni di studio tira fuori il “Padre Pedofilo” come summa della comprensione di Arkeon (come dire che il succo del comunismo è la tutela della proprietà privata), non si parlerà del padre che convinto dalla super-esperta che il figlio sta in una psico-setta minaccia con le armi il figlio, non si parlerà del’articolo della Di Marzio su Arkeon che concludeva che Arkeon non le pareva una setta, non si parlerà dello sciopero di Martini contro Lorita Tinelli (anch’esso venuto fuori da questa vicenda), non si parlerà di tante altre cose incredibili.

Si riproporranno invece gli incappucciati alla Klu Klux Klan e si mostreranno le famiglie con i bambini di Arkeon a volto scoperto, le solite super-vittime (parlo ovviamente solo di chi so), le mistificazioni, le fantasie, le teorie di Margaret Singer, le psico-sette, il lavaggio del cervello (senza dire cosa ne pensano davvero gli studiosi seri ad incominciare da Aletti), gli abusi dei peggiori, la Chiesa che copre (se è Cantalamessa) o che prende le distanze (perché, purtroppo, la verità della stampa torna comoda a certi ecclesiastici più che la verità vera e anche questo abbiamo visto), l’Ordine degli Psicologi che porta acqua al suo mulino, alla faccia di ogni altra considerazione; adesso c’è pure Povia da tirare in ballo a sproposito (per cui pure i gay si mobiliteranno, anche loro a sproposito).

Ci saranno le TV, i blog che di questo vivono (rimestando il vero e il falso), i giornali. Insomma, un sacco di fesserie dannose e pochi o nessun fatto.

Sono certo che, se non è già stato fatto, sono in corso contatti con media, con giornalisti, comunicati stampa, suggerimenti, materiali inediti, nello spregio di ogni forma di morale, da parte dei soliti noti (che ho visto si sono già attivati nella blogosfera). Il solito giornalismo famelico di cui parla bene Raffaella Di Marzio e che un po’tutti ormai riconoscono lontano un miglio.

Va bene. Prepariamo ad un’altra gogna, ad un altro giro. Ci sono già passati in tanti dai roghi mediatici, dalle cacce alle streghe che in qualche modo ci passeremo anche noi.

Che bella Italia.

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Rompere il sacro

“To write ‘death to the Arabs’ on the walls, to take family pictures and spit on them, just because you can”

“Scrivere ‘morte agli arabi’ sui muri [delle loro case, ndr], prendere fotografie della famgilia, e sputarci sopra, solo per dimostrare che puoi farlo”

Sono le dichiarazioni di un capo di una piccola unità di fanteria israeliana a proposito di quanto accadeva a Gaza, marzo 2009, raccolte ad un incontro di ex allievi di una scuola pre-militare. Il capo del corso di addestramento, tale Danny Zamir, le ha riportate prima al Capo di Stato Maggiore, poi alla stampa (Radio Israele e il quotidiano Haaretz; se ne è parlato anche su Repubblica). Ci sono in rete alcuni commenti scettici, ispirati probabilmente da fonti militari, e le notizie su Israele vanno sempre prese con le pinze, essendo vittima abituale di una lobby mediatica trasversale. Anche sulla scorta di questo ulteriore articolo e della stampa internazionale, sono portato a credere che siano testimonianze credibili (peraltro, il fatto che si faccia così fatica a confermare un fatto mi sembra significativo di questi nostri tempi).

Su tutti i racconti terribili, è la frase sopra che mi fa pensare. Mi fa pensare a che possibile reazione provoca in un bambino, giovane, adulto vedere una violazione simbolica così grave delle propria mura domestiche e dell’immagine dei propri cari. Penso: odio inesauribile o annichilimento.

Nella prima ipotesi, penso che per chi ha mente un po’calda, la retribuzione sia immediata. Nella seconda ipotesi, si è raggiunto l’obiettivo. Soprattutto quando alla rabbia segue la reazione di impotenza e di ingiustizia comunque senza sanzione.

Mi raccontarono anni fa di come gli americani, nel combattere gli indiani, distruggessero le tombe degli antenati, proprio con lo stesso spirito.

Scendiamo ad un livello molto meno tragico, anche se non bello. Raffaella Di Marzio racconta di un episodio sgradevole sul suo blog (la vendita su eBay di ostie consacrate). Anche qui si vuole ferire un senso interiore di sacralità, violandola.

Nella nostra società mediatica, lo stesso trattamento si fa con le immagini. La si prende, la si estrapola per toglierle ogni significato. Si prende un momento intimo e sacro, come l’abbraccio tra un padre ed una figlia, e si commentano le cose peggiori in sottofondo.

Su scala molto più piccola e locale, con lo stesso spirito: suscitare odio che finisce in impotenza davanti all’ingiustizia impunita, oppure annichilimento interiore del proprio tesoro più sacro.

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Libertà di reinventarsi

Un foulard rosa e giallo con i fiori rossi in testa, una lunga giacca viola scuro, pantaloni e scape neri. Ma anche un orsetto di peluche attacato alla borsa. L’amica invece ha una tunica verde oliva, ed un foulard a bande intonate, verde oliva, alternate ad altre più chiare, quest’ultime ornate da tondi. Tutte e due dotate di trolley e intensamente chiacchieranti in, credo, arabo. Con la fede al dito, che non so però se abbia lo stesso significato che ha per noi.

Chissà che cosa pensano, quali preoccupazioni, cosa insegnano e sperano per i loro figli. Di quali case si prendono cura, che cosa cucinano tra tradizioni di casa loro e ingredienti italiani disponibili al supermercato.

Questo mi hanno fatto pensare due signore musulmane viste su un mezzo pubblico. I loro figli, o mariti, o cugini, si vedono più spesso; dove vivo, invece, le donne sono meno frequenti.

Qual’è il mio sentimento? Lo ammetto, un filo di nostalgia e anche di timore lo avverto. Di nostalgia per l’Italia quasi solo italiana in cui sono cresciuto, di paura per un Italia in cui la cultura italiana potrebbe diventare minoritaria. Però passano in fretta e la curiosità diventa maggiore.

In fondo i miei antenati si sono visti arrivare visigoti, longobardi, franchi, soldati svizzeri, francesi e spagnoli e quant’altro (e magari facevano proprio parte degli invasori); noi italiani siamo il risultato di questo mescolamento lungamente digerito. Non solo, ho avuto il modo di fare esperienza di quanto sia sgradevole essere trattati da “stranieri” e quindi lasciamo perdere.

Passo a considerare la sfida che si pone a queste donne, ai loro mariti e ai loro figli. Che è la sfida di operare una sintesi tra ciò che sono e sanno, e il mondo che incontrano, questo occidente italiano in cui vivono e lavorano, in cui soprattutto i loro figli crescono ed imparano. Sperabilmente, sapranno trovare nuove concezioni, nuove filosofie.

La concenzione di uomo, donna, madre e padre da passare ai figli, senza rinnegare le radici ma anche proiettandoli verso il futuro.

Anche la società italiana si confronta con il cambiamento demografico, ma più in generale con la più recente modernità. Trovo curioso come, per molti, sia un non-tema la riflessione etica su questa modernità che la Chiesa propone, come se i cambiamenti non richiedessero pensiero e scelte.

Ancora più strano che mi sembra che i tentativi di infondere nuova vitalità nella Chiesa – altre risposte alla modernità – sono perseguitati. Singolare perché questi movimenti sono sempre stata la forza della Chiesa, da S. Francesco a Cluny, e ancora più singolare perché gli attacchi a questi movimenti, spesso rigorosamente cattolici, vengono da fuori dalla Chiesa. I carismatici si sono salvati solo quando la Corte costituzionale ha abolito il reato di plagio. I neocatecumeni sono messi tra le peggiori sette dai cosidetti esperti di cult (poi si scopre dai documenti di questi “esperti”, che sono a volte psicologi aconfessionali, che gli abusi gravi dei neocatecumeni sono solo liturgici).

I movimenti, come Arkeon, che cercano di sintetizzare originariamente esperienze ed influenze, per esempio, degli indiani d’America e quelle sino-giapponesi, ancorandosi comunque al cattolicesimo e senza pensare neanche per un attimo di farsi religione (al contrario della New Age, per esempio), sono anch’essi prontamente perseguitati, proprio perché tentano una nuova sintesi (che diventa spregevole sincretismo). Colpisce quanto questo tipo di nuova sintesi, purtroppo non da una prospettiva cristiana, invece, stia accadendo ovunque nel mondo, come si vede persino nei cartoni animati (vedi Kung-fu Panda).

Emarginato e vituperato è ancora chi vuole ripensare al ruolo del padre e della famiglia, come il movimento maschile (e, anche in questo, più duramente, Arkeon).

Si puniscono quindi sistematicamente e, a tratti, ferocemente gli elementi di trasformazione della società (l’unica protezione sembra essere la Chiesa, almeno in alcuni casi – infatti si ricordi l’attacco feroce a Padre Cantalamessa nel caso di Arkeon).

Il buonismo, o politically correct – che sembra diventare un totalitarismo strisciante delle idee – permette solo agli stranieri di reinventarsi. Gli italiani devono sclerotizzare.

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Inizio a capire l’economia

Secondo nuove stime della Banca Mondiale per il 2009, a causa della recesssione, 46 milioni di persone, che avrebbero potuto uscire dalla povertà estrema se la recessione non ci fosse stata resteranno intrapppolati nella fascia salariale sotto i 90 centesimi al giorno (appunto povertà estrema).

Altri 53 milioni che potevano uscire dalla fascia salariale di 1 euro e mezzo al giorno (che è la soglia mondiale della povertà) resterà confinata in quella fascia. 130-155 milioni di persone che erano usciti dalla povertà torneranno a farvi parte. Per la cronaca, se rinunciassero a mangiare, riscaldarsi, comprarsi vestiti, alle medicine, a provvedere ai figli, potrebbero comprarsi la nuova Ecoricarica Vodafone (senza che ovviamente Vodafone c’entri nulla).

Ma quello che fa più male è che, se la crisi persiste fino al 2015, moriranno tra 1,4 e 2,8 milioni di bambini, che altrimenti potevano salvarsi.

Inizio a capire l’importanza dell’economia. E cosa si dovrebbe fare a tutta la casta di Wall Street & Co.?

Ho visto come insegnare i poveri ai figli non sia facile. Ma è necessario. Come capire, per quanto neppure i saggi le conoscano tutte, le conseguenze.

Trovate i dati della Banca Mondiale:
Crisis Hitting Poor Hard in Developing World, World Bank says

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