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1 aprile all’inverso per Arkeon: una proposta per i media

Con l’approssimarsi del primo Aprile, festa in cui tradizionalmente si raccontano stupidaggini assurde, cose non vere, vorrei lanciare una proposta diversa ai media. Premetto che i media, per me, hanno da anni fatto “primo Aprile” per 365 giorni all’anno a spese di Arkeon, raccontando quanto  sono un sacco di assurdità, non verità, facendo scandalismo per nulla connesso con la realtà.

Ecco la proposta: perché non fare un primo Aprile all’inverso quest’anno e raccontare un po’(almeno un po’) di verità su Arkeon l’1/4/2010?

Sarebbe bello che aderissero anche alcuni rappresentanti del movimento anti-sette…….

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Il dott. Giuseppe Luigi Palma (psicologi italiani) e il senso dell’appartenenza

Mio padre oggi a Milano? Proverebbe lo stesso disagio di allora. Rappresentato da una consapevolezza: il lavoro chiamato a fare solo nell’interesse del Paese, non gli porterebbe la solidarietà della collettività

Umberto Ambrosoli a proposito del padre Giorgio

Seguo il filo del post precedente. Mi interessa esplorare perché, nella nostra società, possono accadere tante cose ingiuste, i roghi mediatici, la solitudine di chi si espone, e così via, su scale magari incomparabilmente diverse. La mia teoria, per nulla originale, è che, accanto a poche persone che si comportano davvero male, i più permettono questi comportamenti, pur avendo l’autorità di impedirli.

Prendo un esempio recente.

Raffaella Di Marzio è una studiosa di movimenti settari e di psicologia della religione, il cui lavoro seguo da qualche tempo. Circa un anno fa, a causa di un’ipotesi di studio evidentemente sgradita, la Di Marzio fu oggetto di una campagna di denigrazione presso i colleghi del campo da parte di una psicologa iscritta all’Ordine Professionale (la Di Marzio, facendo ricerca, non è iscritta all’Ordine), a mezzo di un’e-mail. Nella mail , si affermava tra l’altro che, secondo il Presidente dell’Ordine degli Psicologi, la Di Marzio faceva abuso di professione. Il danno subito dalla Di Marzio per via di questa mail è superiore a quanto immediatamente si immagina.

La Di Marzio ha dunque chiesto chiarimenti al Presidente dell’Ordine, il quale ha smentito per iscritto di aver mai detto quanto riportato nella mail denigratoria. Il dott. Palma non è però poi intervenuto presso l’autrice del messaggio per ottenere una rettifica a tutela sia sua che della Di Marzio. Al contrario, come la Di Marzio ha reso pubblica la lettera del Presidente, per riabilitarsi anche davanti ai colleghi, il dott. Palma ha pensato bene di diffidare la Di Marzio con un fantomatico (dicono alcuni legali) richiamo alla normativa sulla privacy.

Non ci avrà pensato di certo il dott. Palma, ma al profano il messaggio sembra essere: denigrate pure i non iscritti all’Ordine, tiratemi pure in ballo per danneggiarli, tanto al massimo vi smentisco in privato. Sicuramente non intendeva questo, ma tant’è.

Si tratta di una vicenda in cui dal dott. Palma ci si aspettava altro profilo: c’è in ballo il ricorso al sensazionalismo di alcuni media da parte di una psicologa, la denuncia della stessa alla magistratura di colleghi, la riproposizione di teorie, quelle della Singer, smentite da scienza, tribunali e rigettate praticamente da tutti. C’è il metodo scientifico accettato, l’osservazione sul campo proposta dalla Di Marzio contro la mancanza di un metodo scientifico, di uno studio. Insomma, una situazione in cui, almeno da fuori, sembrava che bisognasse guardare un po’oltre la casacca.

Per me, se i fatti riferiti sono corretti, sono queste quelle cose che vengono fatte senza neanche pensarci e rendono meno sana la nostra società.

Ritorno all’inizio per ricitare Umberto Ambosoli “nessuno ha mai potuto dire: Ambrosoli era uno dei nostri“. Purtroppo, in Italia, sembra vigere ancora la legge dei “nostri”.

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Caso Arkeon: i fatti che i media non hanno riportato

Con un po’di ritardo, riesco a dare notizia di un sito (sotto forma di blog) che finalmente riesce a dare conto con una certa sistematicità del caso Arkeon. Il sito si chiama il caso Arkeon. Lo segnalo a tutte le persone interessate a capire qualcosa di più di questa incredibile vicenda mediatico-giudiziaria.

Rispetto all’immagine sopra, “Inconvenient truth” significa “verità scomoda” e “Reassuring lie” significa “menzogna rassicurante”.

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Il pregiudizio positivo

Ho incontrato stamattina al bar un sacerdote. Stempiato, capelli bianchi, asciutto pur essendo più vicino ai settanta che ai sessanta, occhiali e clergyman.

Mi è venuto istintivo sorridergli e fare un cenno di saluto. Lo stessa simpatia mi capita di provarla verso le suore.

Ho conosicuto ottimi sacerdoti, ma anche pessimi; di frati ne ho conosciuto pochi, ma di suore terribili ne ho viste (che mi hanno infilitto tra l’altro un catechismo terribilmente noioso e vuoto).

Eppure ho un pregiudizio positivo verso la categoria, prima di valutare la persona.

In Italia, forse da sempre, ci sono i mangiapreti. Credo che restino una minoranza.

Forse però quest’istintiva familiarità e simpatia, che io credo ancora abbastanza diffusa, sta scemando, se è vero che stiamo andando ad assomigliare ai paesi del Nord dove semplicemente la chiesa protestante sta sparendo ed è esotica in casa propria.

Non credo sia un’evoluzione positiva.

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L’adolescente giovane guerriero frustrato

Un tempo tra i quattordici e i vent’anni si potevano ereditare imperi, guidare eserciti, o più modestamente metter su famiglia e mantenerla, comunque si lavorava duramente. Sessant’anni fa, Joshua Lederberger compì gli esperimenti che gli valsero il premio Nobel: aveva circa vent’anni.

Vedo ragazzi, adolescenti o già ventenni e mi rendo conto che per tante di queste cose non sono pronti. Ho l’impressione che non sia solo un problema culturale, ma che davvero l’età dell’adolescenza sia di preparazione, e che gli imperi si ereditino meglio ad età più avanzate, e che per concentrarsi sul Nobel ci sia tempo anche dopo.

In effetti, a sedici anni o a diciotto, credevo di capire tutto, ma sapevo ancora poco di me, del mondo; e non sapevo neanche di non saperlo.

Ricordo, però, tanta noia, tanto spreco, tante ore in classe senza senso, con il sospetto, che ora è certezza, che la vita fosse altrove. Certo c’è chi ha fatto meglio e di più. Anche io ho fatto le mie esperienze, alcune straordinarie, i miei viaggi, le mie amicizie serie, le prime ragazze, ma complessivamente, in quell’adolescenza, mancava la vita.

Penso di ripetere cose già dette da altri dicendo che si tratta di un problema strutturale della nostra società. Prendendo una prospettiva maschile, mi sembra che siamo passati da un’educazione gestita dal padre, sia direttamente in un lavoro condiviso, che era prevalentemente nei campi, sia, in rari casi, se delegata ad un maestro o altra figura, sempre sotto il suo stretto controllo. Solo in tempi relativamente recenti – per fini condivisibili di universalità – la scuola è diventata pubblica, patrimonio dello stato. In questa sua nuova veste, non ha più tratto la sua legittimazione, anche economica, dal padre e comunque dalla famiglia, scivolando fino a porsi in antitesi a padre e famiglia d’origine.

Prova ne sia che istintivamente molti sentono questo dovere della scuola di “elevazione” rispetto alla famiglia come naturalmente giusto (anche se ammettono, pensandoci, che di famiglie “idonee” ce n’è forse di più, in proporzione, che di insegnanti).

La scuola contro il padre – diventata contro perché deve sostituirsi come autorità interiore – non solo non è più la scuola del padre, ma non è neanche la scuola della tribù, della comunità. L’adolescente, che diventava uomo, si confrontava, in maniera più o meno ravvicinata, con l’essere adulti o uomini, si confrontava con la possibilità di mettere alla prova quel sogno imitativo che nasce nell’infanzia. Ora questo non accade più.

La scuola di oggi ha tutt’altri obiettivi . Non forma il giovane uomo perchè manca dell’amore – anche severo – del padre, non forma il giovane guerriero che la scuola anzi teme  – e che, un tempo, la comunità formava perché doveva essere pronto di lì a poco a battersi per difendere la tribù. La scuola moderna forma invece il cittadino medio, medio inteso generalmente come quello immaginato dall’impiegata pubblica cinquantenne. Categoria sociale che peraltro ha rifatto la scuola a sua immagine e somiglianza.

Che ci si rompa mi sembra il minimo.

Ma anche fuori non è meglio. Alla società l’adolescente serve perché consuma molto, consuma reddito che altrimenti finirebbe in risparmio. Certo è che quel bisogno di imparare dal padre e dagli adulti della “tribù”– riconosciuto o meno – brucia; brucia la voglia di mettersi alla prova, che si accascia nelle frustrazioni senza senso del sistema. Nelle relazioni si rischia di restare soli, perché, ove il padre (e la madre) sono assenti, non c’è nessuno sguardo sociale a verificare, nessun interesse a promuovere la socialità.

Quello che penso è che tutto questo non è inevitabile; possiamo fare diversamente, almeno a livello individuale. Credo che la scuola – almeno la scuola normale – vada depotenziata nella sua capacità di imporre agende e priorità ai ragazzi; ci sono cose da imparare e c’è da imparare metodo e fatica dell’imparare. E a volte la gioia della poesia, delle lettere o della scienza. Ci vuole che entri però anche il vento del mondo vero – possibilmente dalla parte del padre e del suo mondo e non solo quello della contestazione. La vita è piena di sfide ed avventure, e congelare gli anni non si può proprio.

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Libertà di reinventarsi

Un foulard rosa e giallo con i fiori rossi in testa, una lunga giacca viola scuro, pantaloni e scape neri. Ma anche un orsetto di peluche attacato alla borsa. L’amica invece ha una tunica verde oliva, ed un foulard a bande intonate, verde oliva, alternate ad altre più chiare, quest’ultime ornate da tondi. Tutte e due dotate di trolley e intensamente chiacchieranti in, credo, arabo. Con la fede al dito, che non so però se abbia lo stesso significato che ha per noi.

Chissà che cosa pensano, quali preoccupazioni, cosa insegnano e sperano per i loro figli. Di quali case si prendono cura, che cosa cucinano tra tradizioni di casa loro e ingredienti italiani disponibili al supermercato.

Questo mi hanno fatto pensare due signore musulmane viste su un mezzo pubblico. I loro figli, o mariti, o cugini, si vedono più spesso; dove vivo, invece, le donne sono meno frequenti.

Qual’è il mio sentimento? Lo ammetto, un filo di nostalgia e anche di timore lo avverto. Di nostalgia per l’Italia quasi solo italiana in cui sono cresciuto, di paura per un Italia in cui la cultura italiana potrebbe diventare minoritaria. Però passano in fretta e la curiosità diventa maggiore.

In fondo i miei antenati si sono visti arrivare visigoti, longobardi, franchi, soldati svizzeri, francesi e spagnoli e quant’altro (e magari facevano proprio parte degli invasori); noi italiani siamo il risultato di questo mescolamento lungamente digerito. Non solo, ho avuto il modo di fare esperienza di quanto sia sgradevole essere trattati da “stranieri” e quindi lasciamo perdere.

Passo a considerare la sfida che si pone a queste donne, ai loro mariti e ai loro figli. Che è la sfida di operare una sintesi tra ciò che sono e sanno, e il mondo che incontrano, questo occidente italiano in cui vivono e lavorano, in cui soprattutto i loro figli crescono ed imparano. Sperabilmente, sapranno trovare nuove concezioni, nuove filosofie.

La concenzione di uomo, donna, madre e padre da passare ai figli, senza rinnegare le radici ma anche proiettandoli verso il futuro.

Anche la società italiana si confronta con il cambiamento demografico, ma più in generale con la più recente modernità. Trovo curioso come, per molti, sia un non-tema la riflessione etica su questa modernità che la Chiesa propone, come se i cambiamenti non richiedessero pensiero e scelte.

Ancora più strano che mi sembra che i tentativi di infondere nuova vitalità nella Chiesa – altre risposte alla modernità – sono perseguitati. Singolare perché questi movimenti sono sempre stata la forza della Chiesa, da S. Francesco a Cluny, e ancora più singolare perché gli attacchi a questi movimenti, spesso rigorosamente cattolici, vengono da fuori dalla Chiesa. I carismatici si sono salvati solo quando la Corte costituzionale ha abolito il reato di plagio. I neocatecumeni sono messi tra le peggiori sette dai cosidetti esperti di cult (poi si scopre dai documenti di questi “esperti”, che sono a volte psicologi aconfessionali, che gli abusi gravi dei neocatecumeni sono solo liturgici).

I movimenti, come Arkeon, che cercano di sintetizzare originariamente esperienze ed influenze, per esempio, degli indiani d’America e quelle sino-giapponesi, ancorandosi comunque al cattolicesimo e senza pensare neanche per un attimo di farsi religione (al contrario della New Age, per esempio), sono anch’essi prontamente perseguitati, proprio perché tentano una nuova sintesi (che diventa spregevole sincretismo). Colpisce quanto questo tipo di nuova sintesi, purtroppo non da una prospettiva cristiana, invece, stia accadendo ovunque nel mondo, come si vede persino nei cartoni animati (vedi Kung-fu Panda).

Emarginato e vituperato è ancora chi vuole ripensare al ruolo del padre e della famiglia, come il movimento maschile (e, anche in questo, più duramente, Arkeon).

Si puniscono quindi sistematicamente e, a tratti, ferocemente gli elementi di trasformazione della società (l’unica protezione sembra essere la Chiesa, almeno in alcuni casi – infatti si ricordi l’attacco feroce a Padre Cantalamessa nel caso di Arkeon).

Il buonismo, o politically correct – che sembra diventare un totalitarismo strisciante delle idee – permette solo agli stranieri di reinventarsi. Gli italiani devono sclerotizzare.

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